I racconti di Via Fermi


Inconveniente a corte – di Giulio Bacciardi

Luca ama Irene – di Noemi Taddei

L'impermeabile – di Dalì Ciampa

Parla Zeus – di Tommaso Mongelli

Luci sulla spiaggia – di Isabella Carabba e Dalì Ciampa


INCONVENIENTE A CORTE – di Giulio Bacciardi



Ormai il salone era stato allestito a dovere. Gli ultimi servitori si affaccendavano a sistemare le portate che ancora mancavano sulle lunghe tavolate laterali, coperte da tovaglie bianchissime, che quasi riflettevano la luce del mezzogiorno, proveniente dalle enormi vetrate sulla destra del portone smaltato. I grossi tavoli circolari erano stati adornati con porcellane e posate in argento. Il vociare che riecheggiava nel corridoio mise le ali agli stivaletti col tacco basso di chi ancora si attardava nel salone, magari provando ad assaggiare giusto un pochino di quelle pietanze squisite.


Quando la chioma riccioluta di Luigi XIV fu illuminata, una volta aperta la porta, nella stanza non c'era più nessuno. I suoi numerosi ospiti lo osservavano con impazienza, spostando lo sguardo ora sulla sua figura, ora su ciò che intravedevano alle sue spalle. Ad un gesto del sovrano la folla sciamò con finta delicatezza verso i tavoli, facendosi servire dai propri paggi, e tutti cercarono un posto dove sedersi, senza lesinare qualche gomitata o calcio negli stinchi ai vicini troppo molesti.


Ben presto i tavoli furono riempiti, e il rumore delle voci che si sovrapponevano infastidì persino i levrieri che dormivano nel cortile sottostante, nascosti nelle proprie cucce. In mezzo alla confusione non una voce emergeva con chiarezza, neanche se avesse urlato con tutto il proprio fiato. Per questo gli altri tavoli ci misero un po' ad accorgersi della contessa che, rovesciata la sedia, stava strillando tanto da far risaltare il rossore delle guance sotto il pesante strato di cipria che le ricopriva. Davanti a lei, un uomo era riverso sulla tavola: il viso affondato nella spessa tovaglia, le mani serrate attorno al papillon di pizzo che gli cingeva il collo. Una piccola traccia di bava si confondeva con la minestra, rovesciata durante gli spasmi.


Tutti si fermarono a fissare la scena per qualche secondo: che comportamento disdicevole, morire strozzati durante il pranzo del Re. Sbavando, per di più. Poi simultaneamente smisero di mangiare, facendo cadere le posate in un unico tintinnio. Sua Maestà stava intimando alla servitù di portare via il corpo, quando alcuni versi strozzati ne interruppero la sequenza di ordini. Almeno altre quattro o cinque persone stavano tossendo o rantolando, decidendosi a smettere solo dopo essere crollate a terra o sulle sedie, morte. Luigi XIV ordinò subito di portare via il cibo in tutta la reggia, preoccupato per la famiglia, che consumava il pasto nelle proprie stanze.


Correndo a perdifiato per i lunghi corridoi, i servi riuscirono ad evitare per un soffio che la principessina Maria-Anna ingoiasse la prima cucchiaiata di budino, il suo cibo prediletto, dal quale cominciava sempre. Glielo tolsero senza alcun riguardo per il rango o per l'etichetta, scatenando le ire della bambina: tra una minaccia di pena capitale e una lamentela verso i crudeli ordini del padre, si diresse a passo pesante nel salone. Entrò spalancando le porte, impresa ragguardevole per i suoi sette anni, salvo poi accorgersi che ad aprirle era stato un uomo dietro di lei, ben vestito e dal volto preoccupato. Era accompagnato, o meglio, tampinato, da un giovanotto che stringeva al petto con religiosa attenzione una valigetta.


L'uomo la superò, diretto verso il sovrano, che lo accolse speranzoso, anche se i modi sufficienti non lo avrebbero mai dimostrato. Il dottore si fece raccontare l'accaduto, mentre il giovane studente, trattenendosi dal trasalire ad ogni sguardo per la bellezza dell'ambiente circostante, apriva la valigetta e ne tirava fuori strani strumenti e boccette di liquidi colorati. La principessa Maria-Anna, ripresasi dalla breve fascinazione che quegli oggetti le suscitavano, andò dal padre per far valere le proprie ragioni. Questi la liquidò, dicendole che era “pericoloso mangiare il budino” e altre sciocchezze. Non convinta, andò verso il tavolo, decisa almeno ad avere un assaggio della pietanza tanto desiderata, magari anche mentre il padre stava guardando: così imparava. Grande fu il disappunto quando si accorse che la servitù aveva portato via quasi tutto.


Ma non si perse d'animo e sgattaiolò verso le cucine, dove sapeva che avrebbe trovato ancora del budino, e tanto. Una volta raggiunte, si mise alla ricerca del suo dolce tesoro. Sui banconi non trovò nulla, cominciando quindi a guardare dentro credenze e scaffali. Con la goffaggine tipica dei bambini non fece caso a una pentola sporca di grasso e fuliggine, che le sporcò mani e viso. Irritata, prese un panno per pulirsi, ma subito sentì che qualcosa non andava: gli occhi le pizzicavano e presto cominciò a lacrimare. Piangendo a dirotto, più per la paura che per il dolore, corse dal padre, con ancora lo straccio in mano.


Il pianto disperato richiamò l'attenzione di tutti i presenti. La folla di conti, granduchi, marchesi e marchese si girò come una sola entità, quando le grandi porte del salone si aprirono, facendo strillare i cardini. Una figurina bianca, ma chiazzata di nero, saettò al centro della sala, impattando violentemente contro Sua Maestà, che riuscì a rimanere in piedi per miracolo, comunque costretto a piegarsi vista la forza del colpo. Maria-Anna si strinse al padre, frignando per attirare l'attenzione. Luigi cercò di rassicurarla, di consolarla, mentre le toglieva più e più volte le manine sporche dagli occhi, che la bambina sfregava senza sosta. Il giovane assistente del medico si avvicinò per prestare soccorso: osservò le mani della bimba, le tamponò con un po' di cotone intriso con chissà che cosa e infine disse, con occhi che tradivano ansia e voglia di conferma: “è crotontiglio”.


Sperava che l'analisi si rivelasse corretta, impressionando così il maestro. Il vecchio dottore annuì, pensierioso, e il cuore del ragazzo sussultò mentre un sorriso gli si allargava sul volto. Ascoltava ora l'anziano medico come se non fosse del tutto presente, separato da una bolla di puro orgoglio. Intanto, l'altro aveva cominciato a illustrare le dinamiche con cui poteva essersi svolto l'omicidio, aggiungendo particolari sugli effetti della pianta appena nominata dall'assistente. Questi lo osservava rapito e, per risaltare ancor di più, gli si avvicinò con la borsa, piena di strumenti e misture. Tanta era la trepidazione, però, che cadde a terra, scivolando su un vassoio caduto durante il pranzo. Dalla borsa rotolò fuori un cappello sgualcito, che tutti i presenti riconobbero subito.


Era lo stesso berretto che portavano i ribelli nelle strade di Parigi, ormai da giorni. Subito i nobili più vigorosi furono addosso al medico, che gridava la sua innocenza a pieni polmoni. Compresa l'inutilità dei suoi strepiti, il vecchio inneggiò alla Repubblica e con un violento strattone si lanciò sul banchetto, divorando finché poté i cibi avvelenati. Morì fra le convulsioni, con uno sbuffo di panna sui baffi, mentre tutti i budini sul tavolo sparivano nella sua bocca, sotto gli occhi attoniti della principessina. I presenti rimasero di sasso, ma dopo qualche minuto di stupore, chiesero a gran voce nuove cibarie. Le cronache di Versailles ricordano il pranzo del 13 Luglio 1789 come uno dei più lussuosi di sempre.


Giulio Bacciardi è un allievo del laboratorio di scrittura MediaScuola - Circolo Alhambra.


LUCA AMA IRENE – di Noemi Taddei


Luca si ricorda ancora di come ha conosciuto Irene. A detta sua, amore a prima vista. È nato tutto quando, in un Giugno caldo, afoso, dove l'unico modo di avere un po' d'aria era il ventilatore. Luca, quando ha visto Irene, era in moto e stava facendo la quarta curva del Mugello, in allenamento. Avvicinandosi alla curva rallenta, senza frenare: mano sinistra sulla frizione, il piede destro scala di una marcia, la moto si piega e la gamba sinistra si allarga sfiorando l'asfalto cocente. La curva dura solo pochi secondi, ma per Luca diventano minuti.


Capisce che l'emozione che stava provando in quel momento, e per la prima volta, non era a causa della quarta curva... ma per chi c'era sui new jersey. Una ragazza minuta, dai capelli rossi che, tirati su, mostravano la rasatura. Indossava una canottiera bianca con spalline strette, e pantaloncini corti leggermente più ampi delle sue gambe. Ai piedi, delle Buffalo nere. Non riesce a vederla in viso a causa dell'enorme macchina fotografica che la nascondeva.


Ma l'immagine di quella ragazzina così piccola e così forte, accovacciata sopra il grande new jersey rosso, l'ha spinto ad andare più forte, per finire quelli che ormai dovevano essere gli ultimi due giri. Non sa se il pazzo è lui, ad andare così forte, o lei a stare là sopra, rischiando di cadere sulla pista. Finalmente termina il giro. Si toglie il casco e, mentre parla col meccanico, la vede uscire dal box accanto. Adesso la vede in viso, e quegli occhioni verdi gli sorridono.


È questo ciò a cui pensa Luca, quando dal fondo della navata centrale vede Irene, vestita di bianco, entrare e andare verso Marco. Parli ora o taccia per sempre.


Noemi Taddei è un'allieva del laboratorio di scrittura MediaScuola - Circolo Alhambra.


L'IMPERMEABILE – di Dalì Ciampa


A lui piaceva la pioggia e camminarci dentro. Non poteva assolutamente definirsi meteoropatico: il suo umore cambiava col vento, più che con il tempo... non usava ombrelli, li odiava e nessuno lo capiva. Anche sotto l'acquazzone, lui si muoveva tranquillo sotto gocce piacevoli che lo accarezzavano. E anche quella sera aveva optato per una passeggiata solitaria: era già pronto per andare a correre, quando aveva iniziato a piovere. Così era uscito ugualmente, preferendo però, al fastidioso fango bagnato del parco, il calore che si alzava dall'asfalto e dai sanpietrini.


Cappuccio ritirato sulla testa, mani in tasca che giocherellavano con le chiavi, passò sotto l'arco che lo portava nella piazza e la trovò deserta. C'era sempre poca gente di sera, in pratica nessuno, e così la pioggia aveva finito per scoraggiare chiunque. Lo colpiva il contrasto fra la folla che ogni giorno si dimenava per scattare la foto migliore, e la quiete di poche ore dopo. Era tutto così silenzioso e bello, semplicemente bello. Tutto più imponente. Continuò a camminare fin sotto la torre, quasi sguazzando sul marciapiede, poi si fermò, lo sguardo catturato da un punto luminoso tra la pioggia.


Era qualcosa di giallo che ruotava su sé stesso: una specie di pulcino bagnato e probabilmente ubriaco, con le gambe sottili e lunghe e le braccia aperte ad afferrare tutto. Era così bello vederla girare libera e leggera, così surreale da sembrargli un sogno. Voleva avvicinarsi, ma temeva anche solo l'idea di muovere un qualunque muscolo, di fare rumore e farla smettere. Così si mise a volteggiare anche lui, a girare su sé stesso come fanno i bambini per sperimentare qualche secondo di ebbrezza. Girava, girava e girando si avvicinava al suo pulcino ubriaco che diventava sempre più sfocato e irreale, mentre la pioggia completava l'atmosfera di sogno.


Le sfiorò una mano e lei che fino a quel momento non lo aveva notato, si fermò all'improvviso. Anche lui rallentò, ma senza fermarsi, quanto bastava per sorriderle, come incoraggiamento, per sentire “Heroes” in sottofondo provenire da una radiolina lì a terra e per scorgere un viso quasi da bambina sotto tutto quel giallo. Anche lei riprese a girare, più piano e poi sempre più veloce, tanto che lui si fermò a guardarla, poi lei lanciò un urlo e ridendo si lasciò andare a terra, di nuovo pulcino.


Poi si guardarono un po', poi ballarono un po' parlarono un po'. In una lingua che voleva essere inglese ma non lo era. Si baciarono anche un po', quando aveva smesso da un po' di piovere. Poi lei si tolse l'impermeabile giallo e fuggì via, quasi volteggiando come era comparsa, lasciandolo di nuovo tra il sogno e la realtà. Ma lui ci avrebbe messo davvero poco a frugare in tutto quel giallo e trovare il bigliettino col numero di telefono.


Dalì Ciampa è un'allieva del laboratorio di scrittura MediaScuola - Circolo Alhambra.


PARLA ZEUS – di Tommaso Mongelli


Dovete sapere che il mio padrone è davvero molto brutto, almeno questo dice la gente: io lo trovo fantastico, ma che ne posso sapere? Sono solo un cane, io. Un cane lupo di taglia medio-grande, e mi chiamo Zeus. Dicevamo del mio padrone: le sue sopracciglia si congiungono al di sopra del naso, formando un tappetino nero folto e divertente come l'erba di maggio sulle colline, quando mi porta a correre. I suoi denti radi, tutti e venti, sono bianchi come una staccionata appena dipinta, e i suoi occhi mi guardano pieni d'amore, ma mai contemporaneamente.


Il mio padrone, che di lavoro consegna il latte, per me è fantastico. Ma che ne posso sapere io? Tutto quello che posso fare è fare il bravo cane: quando usciamo per lavoro, io sto sempre seduto sul sedile di dietro del furgone. Appena spunta il sole, siamo già in centrale a caricare le bottiglie. Poi il capo operaio mi fa una carezza: ogni mattina sorride, bestemmia, sputa per terra e torna a lavorare. Allora partiamo anche noi.


Per tutto il giorno, facciamo le consegne del latte in paese, e io mi becco sempre una carezza o un biscotto. Il mio padrone, no. Per questo, ogni giorno, gli lascio sempre uno o due biscotti da parte. Li metto in un buco dell'imbottitura del sedile. Presto sarà il suo compleanno... chissà che bella sorpresa! Però oggi è un giorno diverso dal solito. È quasi mezzogiorno e il furgone inchioda nella piazza principale, tanto che mi ritrovo sul sedile del passeggero.


Davanti a noi c'è la signora Giovanna. La signora Giovanna non mi piace, ha la faccia severa e puzza sempre di pipì di gatto. Sicuramente vuole i miei biscotti, ma non gliene lascerò nemmeno uno. “Che vogliamo fare, signora Giovanna? Non può stare lì tutto il giorno!” Mentre controllo le bottiglie per vedere se non si siano rotte, sento un rumore tremendo. “Uuuuuuuuh!”, è la signora. “Tu sei maledetto dal Signore!” strilla indicando il mio padrone. “Tu ci porterai una sciagura grossa, con quella faccia che ti ritrovi!”


Il mio padrone (l'ho già detto che è fantastico?) si gira preoccupato a guardarmi. Non sapendo cosa fare, gli faccio l'espressione che fa un cane lupo in questi casi, e mi accorgo con grande sorpresa che la sa fare benissimo anche lui. Gli schiamazzi sono cessati, e la signora Giovanna è scomparsa. Anche la gente nel caffè sotto al Comune ha smesso di guardare. Ripartiamo.


La settimana dopo, succede la stessa scena, ma questa volta la signora Giovanna agita un bastone: “Tu! Tu vuoi maledirci, stai preparando qualcosa! Scendi subito!” Ma io sono più veloce del mio padrone, esco dal finestrino aperto e inizio ad abbaiare a quella cattiva. Si vede che lei non ha paura di me, ma arretra. Il mio padrone mi prende per il collare, si scusa e ce ne andiamo. Che rabbia! Si vede che il mio padrone è preoccupato. Si vede anche che cerca di non farci caso... ma gi darò i suoi biscotti solo quando sarà il momento! Tutti per il suo compleanno! Il mio padrone mi vede scodinzolare, e sorride.


La settimana successiva, la signora Giovanna non è più sola, con lei c'è un carabiniere. “Lo arresti, mi ha minacciata! E vuole avvelenarci tutti con il suo latte!” Il mio padrone mi guarda come a dire di stare tranquillo, qualsiasi cosa succeda, e scende dal furgone. Il carabiniere lo prende da parte, si vede che anche lui ha la faccia seria. Si mettono a discutere ma sembrano tranquilli.


Però c'è un tintinnio che si sente dal fondo del furgone. La signora Giovanna sghignazza, mentre ruba le bottiglie del latte e le mette in una borsa scura. Faccio per abbaiare, ma mi colpisce col bastone. Il mio padrone sta ancora parlando con il carabiniere, lui è fantastico, ma io non so che fare. Ve l'ho detto, sono solo un cane.


Nella piazza del paese, l'incidente della signora Giovanna aveva già smesso d'interessare la gente, che tuttavia accorse in massa dopo che un tonfo sordo cacciò via persino i piccioni sonnacchiosi. La signora Giovanna giaceva stesa per terra, pronta già a dare fastidio in paradiso o all'inferno, c'interessa poco. Il carabiniere e il lattaio correvano dietro alle ultime bottiglie del furgone, fermatosi contro la grande fontana.


Sono solo un cane, però so abbassare un freno a mano.


Tommaso Mongelli dirige il laboratorio di scrittura MediaScuola - Circolo Alhambra.


LUCI SULLA SPIAGGIA – di Isabella Carabba e Dalì Ciampa


La Versilia non era certo bella. L'acqua era sporca e la gente a Forte dei Marmi molto snob. Comunque c'era un'aria rilassata, calda, un po' salata. Mi piaceva. Il suono delle onde del mare tale restava, che fossero limpide o cariche di melma. E poi stavo bene coi miei nonni e i miei fratelli. Di giorno il sole sulla pelle e di sera le cene all'aperto, coi golf sbottonati e i piedi insabbiati che si toccavano sotto il tavolo. Certo in quella sera qualcosina di storto doveva esserci, forse la luna pendeva dal lato sbagliato, forse i fanghi sul fondale marino s'erano fatti troppo densi, avevano preso a ribollire salendo in superficie, invadendo la terraferma, strisciando sino a noi. Altrimenti le cose non sarebbero andate in quel modo.


Mio nonno si era vestito bene per far piacere alla nonna, e nel mio ricordo compare bello, con la pelle abbronzata che risalta sotto la camicia bianca. Eravamo stanchi di mare, svuotati da quel tempo trascorso senza impegni che era entrato dentro di noi e da noi era uscito, tramutandoci in esseri galleggianti in una felicità quieta, in una pacata sonnolenza. Il fumo del pesce steso sulla griglia a cuocere si scontrava con le nostre guance già rosse, e trovava nel loro calore un valido avversario. Eppure mio nonno era nervoso. Non me n'ero accorta fino al momento in cui i miei occhi non avevano incontrato i suoi.


La cornice della scena che stavo vivendo – l'aria pulita, l'odore del cibo, le premure di mia nonna – mi aveva tratto in inganno, distogliendo la mia attenzione dalla realtà dietro le apparenze, rendendomi dimentica dell'individuo. Del particolare, cioè, che sebbene più silenzioso, più piccolo, discreto, viveva e pulsava nel generale. Mio nonno era nervoso, lo ripeto, mi bastò incrociare i suoi occhi. Erano leggermente arrossati, erano lucidi, contornati da un'ombra opaca ma, cosa assai più importante e spaventosa, erano attenti. Tesi in uno spasmo che scivolava, simile a un'onda sabbiosa e scura, avanti e indietro tra la paura e il fastidio.


Mi misi sull'attenti, pulendomi i piedi terrosi, sedetti composta. M'irrigidii, chiamando all'appello ogni briciolo della disciplina che la vita era stata in grado d'insegnarmi fino a quel momento. Avevo già visto quello sguardo appiccicato sulle orbite di mio nonno, molto simile a quello che altre volte percepivo addosso a mio padre: dubitavo che ne avessero colpa alcuna, eppure ne ero terrorizzata. Guardai i miei fratelli, pregai che se ne fossero accorti. Non sarei stata in grado, con le mie sole forze, con i miei soli accorgimenti, di fare in modo che le cose non andassero come dovevano, come stava scritto in faccia al vecchio. Potevo forse impugnare le fila di quella serata e dei suoi attori, dall'alto del cielo scuro, e manovrarli come marionette? Lo speravo e non ci credevo.


Lo sguardo di mio fratello maggiore faceva da specchio al mio. Evidentemente se n'era accorto anche lui. Però Manuel e i suoi rumorosi sette anni giocavano ignari con un colorato yo-yo. E il mio disagio aumentava: volevo che facesse silenzio per sentire a cosa pensasse mio nonno. Sembrava che quell'inquietudine potesse diventare un suono forte e chiaro da un momento all''altro.


Dicono si chiami empatia, e io ne ho sempre avuta molta, anche prima di sapere cosa fosse. Il peso delle emozioni e delle sensazioni altrui era mio quanto loro. E mettersi nei panni degli altri era mille volte più facile che sfilarmene fuori. Così provai ad alleggerire la tensione, la mia prima di tutto. Calcio tattico a mio fratello, che lo prese come un segnale di fuga e si defilò in bagno. D'altronde ognuno alleggerisce la tensione a modo suo. Provai poi con qualche sorriso in direzione di mia nonna, ma le profonde rughe scure non accennarono a spianarsi.


Mi lanciai nella mia abilità più grande, e da perfetta logorroica tracciai un dettagliato elenco della mia giornata. Apprezzai l'ascolto attento di mia nonna e la sua carezza fresca sul dorso della mia mano, ma il nonno non sembrò accorgersi del mio irritante racconto. E il sapore del mare iniziò a fondersi con quello della preoccupazione che cresceva, e che con prepotenza spazzava via la stanchezza.


Dopo aver sistemato la tavola, mi infilai nella doccia. Sciacquai via la sabbia, e con i capelli bagnati tornai in veranda per infilarmi sotto il braccio di mio nonno, a sentire i rumori della spiaggia e a leggere. E forse a sentire il suono dei miei pensieri. Ma il mio posto sembrava essere già occupato, e mentre facevo marcia indietro sulla punta dei piedi nudi, sentii il suono di parole d'amore che placava anche la peggiore delle bufere di rughe e sguardi. E pensai che a volte le fila della vita sono inesorabilmente impugnate da qualcun altro, che con tenerezza e premura la conduce proprio dove deve andare.


Isabella Carabba e Dalì Ciampa sono allieve del laboratorio di scrittura MediaScuola - Circolo Alhambra.